Lessico


Bioluminescenza

Quando i grilli cantano
quando volano le lucciole

Il fenomeno della luminescenza, cioè l'emissione di luce da parte di una molecola, ha affascinato l'umanità fin dall'antichità. Già 2.300 anni fa Aristotele osservava che molte creature (lucciole) producevano "fuoco" solo in certi periodi dell'anno in funzione del vento, e che il "fuoco del mare" era prodotto da organismi viventi.

I primi studi sui processi luminescenti effettuati con un certo rigore scientifico risalgono all'inizio del Seicento, all'epoca in cui gli alchimisti erano alla ricerca della cosiddetta "Pietra Filosofale", in grado di trasformare i metalli vili in oro. Nel 1602 a Bologna, Vincenzo Casciarolo, un calzolaio e alchimista dilettante, descrisse per primo un metodo per ottenere la cosiddetta "Pietra Bolognese", che possedeva la proprietà "magica" di "accumulare luce" quando esposta al sole e riemetterla al buio.

Alla stessa epoca risalgono anche le prime osservazioni sul fenomeno della bioluminescenza: nel 1605 il filosofo inglese Francis Bacon scriveva: "...la caratteristica di produrre luce non è prerogativa solo del fuoco... le gocce di acqua (di mare) spruzzate quando un remo colpisce l'acqua  appaiono scintillanti e luminose...".

Alcuni anni dopo, nel 1637, il filosofo francese René Descartes osservava: "...quando viene agitata l'acqua produce scintille simili a quelle emesse da un frammento di pietra focaia".

Oggi sappiamo che la "Pietra Bolognese" è costituita da barite(solfato di bario) e che il fenomeno osservato da Vincenzo Casciarolo era una fosforescenza di tipo inorganico, mentre Francis Bacon e René Descartes hanno descritto la bioluminescenza di certi microrganismi marini. Comunque, il fatto di conoscere l'origine di questi fenomeni non diminuisce certo il loro fascino.

Recenti applicazioni della luminescenza
in campo biomedico, ambientale e tossicologico
RICH  MAC  Magazine - Settembre 2003

Aldo Roda, Massimo Guardigli, Patrizia Pasini,  Mara Mirasoli, Elisa Michelini
Dipartimento di Scienze Farmaceutiche - Università di Bologna
aldo.roda@unibo.it


La bioluminescenza consiste nell''emissione di luce da parte di organismi viventi che si attua in maniera continuativa oppure in risposta a determinati stimoli eccitatori. La bioluminescenza si riscontra in varie specie di animali terrestri (per esempio le lucciole) e marini (Crostacei, Selaci, Idrozoi, Teleostei, ecc.). Tra i vegetali sono luminescenti alcune varietà di funghi, i batteri saprofiti che si sviluppano sui tessuti animali in decomposizione, numerosi microrganismi simbionti di pesci e molluschi marini.

Luminescenza in un esemplare di Krill antartico - Euphausia superba

Krill è un termine inglese derivato dal norvegese kril (giovane frittura di pesce) che indica piccoli crostacei appartenenti all'ordine Euphausiacea (Euphausia superba o krill antartico, Meganyctiphanes norvegica o krill nordico, Thysanopoda spinicauda) dei quali esistono più di 85 specie, lunghi da 5 a 15 cm, che vivono in enorme quantità soprattutto nelle fredde acque dell'Oceano Antartico in banchi di alcuni km di diametro composti da milioni di individui. Il krill rappresenta il nutrimento principale delle balene, ciascuna delle quali ne mangia fino a 2 t al giorno. Anche aringhe, foche, pinguini e altri uccelli marini se ne cibano in forte quantità. Si è calcolato che la massa di krill sia di 650 milioni di t e che potrebbe essere sfruttata a scopi alimentari. Dai primi anni Ottanta pescherecci giapponesi e russi ne hanno iniziato la raccolta (fino a 100 t/giorno) per utilizzarlo, trasformato in farina, come mangime.

Mycena lucentipes, literally "glowing stem", is one of four new species of bioluminescent fungi discovered by Professor Dennis E. Desjardin (Department of Biology, San Francisco State University, San Francisco, California). Not only do the mushrooms glow as seen above, but their mycelium (the thread-like filaments that do the work of decomposition) glow brightly too.

Le uova guaste che emettono luce - così come accade per una quercia putrefatta - è una notizia tratta da Alberto Magno il quale si associa ad Avicenna, una notizia che viene riferita da Gessner a pagina 420 della sua Historia animalium (1555): "A causa di un'alterazione dei liquidi le parti calde andando incontro a combustione si spostano verso il guscio e lo cospargono: per cui al buio l'uovo emana luce come accade per una quercia putrefatta. E Avicenna attesta che un uovo siffatto è stato da lui osservato nella regione del Corasan." La stessa notizia è riferita da Ulisse Aldrovandi a pagina 222 del II volume di Ornithologia (1600).

Non dovrebbe essere avventato supporre che l'uovo putrido e la quercia putrefatta diventano luminescenti grazie a batteri saprofiti che si sviluppano su tessuti o su materiali in decomposizione.

La bioluminescenza è un fenomeno di origine biochimica legato alla sintesi di particolari sostanze luminose che si accumulano nell'organismo luminescente (bioluminescenza intracellulare) o che vengono secrete nell'ambiente esterno, come si verifica in alcuni organismi marini (bioluminescenza extracellulare). L'emissione di luce avviene in seguito all'ossidazione di una sostanza fotogenetica detta genericamente luciferina, la cui struttura molecolare varia da specie a specie.

Tale reazione ossidativa comporta l'utilizzazione dell'ossigeno atmosferico o disciolto nell'acqua, ed è catalizzata dall'enzima luciferasi. In alcune specie, tra cui le lucciole, l'ossidazione della luciferina richiede non soltanto la presenza di ossigeno, ma anche un adeguato apporto di ATP.

Scarse conoscenze si possiedono ancora sul significato biologico della luminescenza. Sono tuttavia accertate la sua funzione di richiamo sessuale nelle lucciole e la funzione di difesa, di attrazione o di illuminazione dell'ambiente (che dà origine alla luminescenza marina) riferita a varie specie di pesci.

Essendo la bioluminescenza èpresente in organismi viventi diversi, si ritiene quindi che sia apparsa autonomamente in differenti linee evolutive. In alcuni casi il suo significato biologico è evidente (per es., in molte specie di lucciola durante i rituali di corteggiamento) mentre in altri (come in alcune specie di funghi luminescenti o in molti batteri), la bioluminescenza sembra essere un prodotto secondario del metabolismo ossidativo e non avere quindi alcuna funzione diretta.

A volte la bioluminescenza è utilizzata per ingannare altre specie, come nel caso della rana pescatrice che utilizza un lungo peduncolo luminoso per attrarre le prede nelle sue vicinanze. Alcuni pesci marini presentano fenomeni di bioluminescenza originati dalla presenza di batteri simbionti alloggiati in particolari strutture del corpo. Esistono infine organismi che emettono luce in continuazione e altri solo quando vengono disturbati, per es., il dinoflagellato marino Noctiluca miliaris, presente anche nelle acque del Mediterraneo, dove dà origine al fenomeno chiamato popolarmente mare in amore.

Alcune molecole possono essere trattate in modo da provocare l'emissione di luce. Questo fenomeno viene chiamato chemioluminescenza. Questi sistemi modello dimostrano che una molecola emettente luce deve essere portata a uno stato di eccitazione elettronica con un alto potenziale di energia; parte dell'energia di eccitazione viene poi liberata sotto forma di un fotone mentre la molecola ritorna allo stato nativo.

La bioluminescenza si basa sullo stesso principio. Gli studi biochimici di sistemi privi di cellule appartenenti a diversi organismi hanno dimostrato che i meccanismi di emissione di luce sono estremamente vari; è probabile che questa particolare proprietà funzionale si sia sviluppata indipendentemente nei diversi gruppi biologici. Nei batteri la bioluminescenza si associa a un consumo di O2; pertanto, l'emissione di luce avviene soltanto in condizioni di aerobiosi.

La bioluminescenza è una tecnologia di laboratorio emergente e approvata, e rappresenta un valido strumento analitico per la valutazione immediata della contaminazione microbica in ambiente farmaceutico. È a disposizione in formato PDF la relazione stilata nel febbraio 2006 da Lucia Ceresa.

Baritina o Barite

Minerale bianco di lucentezza vitrea o madreperlacea, costituito chimicamente da solfato di bario, BaSO4. Cristallizza nel sistema rombico, in forme lamellari o di parallelepipedo. Ha durezza compresa fra 3 e 3,5 e densità prossima a 4,5 che rappresenta un valore eccezionalmente alto per un minerale non metallico. Abbastanza diffusa in tutto il mondo, rappresenta la fonte principale dei sali di bario. Contiene infatti questo elemento in una proporzione che raggiunge il 58,8%. Macinata e purificata, la barite entra nella composizione di fanghi speciali utilizzati per le perforazioni petrolifere e trova impiego come mezzo di contrasto per le radiografie dell'apparato digerente.

Vincenzo Casciarolo
e la Pietra di Bologna

Per circa tre secoli, dai primi del Seicento all’inizio del Novecento, la città di Bologna deve il suo posto nella storia della chimica soprattutto a una pietra, che da essa prese il nome, utilizzata per ricavarne fosfori, ossia materiali capaci di dare fosforescenza. Eppure, specialmente dal 12 dicembre 1711 - quando fu fondato l’Istituto delle Scienze a opera di Luigi Ferdinando Marsigli - al tempo del governo napoleonico che lo soppresse, non mancano motivi d’interesse verso la chimica bolognese. Basti ricordare, ad esempio, l’allestimento di una “camera” della chimica nell’Istituto suddetto, i contributi di Laurenti, Menghini, Valsalva, Vandelli e, soprattutto, quello di Jacopo Bartolomeo Beccari (1682-1766) medico, anatomico e chimico.

Beccari, professore di fisica dal 4 dicembre 1711, passò alla cattedra di chimica, istituita per la facoltà medica con decreto del 16 novembre 1737, dando avvio, primo in Italia, all’insegnamento universitario della chimica corredato di parte sperimentale. Evidentemente, il pur celebre contributo di Beccari alla scoperta del glutine e altri suoi studi in vari campi, incluso quello dei fosfori, con l’ausilio di dispositivi sperimentali originali, non ebbero risonanza europea pari a quella della Pietra di Bologna.

La Pietra colpì innanzitutto la curiosità e l’immaginario popolare, attirò verso la città l’interesse dei viaggiatori, ispirò testi letterari, suggerì teorie più o meno fantasiose e alimentò numerose dispute scientifiche. La data della scoperta delle singolari proprietà della Pietra di Bologna non è nota con esattezza. Tuttavia, secondo gli storici, si colloca fra il 1602 e il 1604. Essa viene generalmente attribuita a Vincenzo Casciarolo (o Casciorolo), un calzolaio bolognese che, secondo Camillo Galvani (1780), “si dilettava di travagliare nelle cose chimiche” e, passeggiando presso Paderno “per divertirsi da qualche sua naturale malinconia”, vide scintillare una pietra, la raccolse, la portò a casa, la fece cuocere e scoprì, forse casualmente, che mettendola al buio dopo averla esposta al sole, riluceva.

La pietra, cui furono attribuiti vari nomi (pietra fosforica bolognese, pietra di Bologna, pietra luciferina, pietra di luna, spongia lucis, lapis illuminabilis, lapis lucifer, phosphorus ecc.) è una varietà di barite o baritina (solfato di bario anidro), raggiata e nodulare, che una volta macinata, impastata con bianco d'uovo o altri leganti e calcinata su carbone, si trasforma in solfuro di bario. La figura, riprodotta da un testo di Luigi Bombicci (Corso di Mineralogia, G. Monti, Bologna, 1862), un autore che amava disegnare dal vero, ne fornisce un esempio che trova riscontro nei pregevoli esemplari conservati presso il museo a lui intitolato.
La prima citazione delle proprietà della pietra di Bologna è dovuta a Giulio Cesare La Galla (1612), mentre la prima descrizione dettagliata della preparazione di materiale fosforescente a partire da essa è di Pietro Poterio (Pharmacopea Spagyryca, Iacobi Montis, Bologna, 1622). Secondo Poterio, colui che per primo rese luminosa la pietra nell’intento di ricavarne oro, fu un noto alchimista di Bologna, Scipio Bagatello.

Il nome di Casciarolo non compare nel lavoro di Poterio. L’attribuzione della scoperta al “chimico” Casciarolo è di Majolino Bisaccione (1582-1663) e Ovidio Montalbani (1602-1671), in due lettere pubblicate nel 1634. Quest’ultimo, addirittura, propose di chiamare la pietra “lapis casciarolanus”.
Il riconoscimento pieno a Casciarolo venne da Fortunio Liceti (o Licetus) (1577-1657), nell’opera Litheosforus sive de Lapide Bononiensis, pubblicata a Udine nel 1640. Secondo Liceti, fu appunto Casciarolo, uomo di umili condizioni, che trovò la pietra, ne scoprì le proprietà e la mostrò a Bagatelli. Questi ne parlò a Magini, professore di matematica a Bologna, il quale ne mandò campioni a vari scienziati, tra cui Galileo Galilei, e ad alcuni sovrani europei.

Tutto ciò rese rapidamente famosa la pietra, indusse a riprodurre il procedimento di preparazione dei fosfori e ad interpretarne il comportamento. Nacquero le ipotesi più disparate. Per un certo periodo, da parte di alcuni (Niccolò Cabeo, Athanasius Kircher), si pensò che la pietra si comportasse con la luce così come un magnete si comporta con il ferro. Anche Galileo intervenne nella disputa, seppure di sfuggita, con una lettera a Leopoldo di Toscana, scritta per confutare alcune osservazioni di Liceti sulle opinioni dello stesso Galileo in merito al “candor lunare”.

La scoperta di un residuo luminoso nel prodotto della distillazione delle urine calcinato su carbone (il fosforo elementare), avvenuta a opera di Brand nel 1669, ravvivò ulteriormente la discussione sulle proprietà dei fosfori naturali e artificiali e vi partecipò anche Robert Boyle. Nel Settecento, il sistema newtoniano influenzò anche le teorie sulla pietra. Un gruppo dell’Accademia bolognese (Beccari, Galeazzi e Laurenti) fece numerosi esperimenti in proposito. I Commentari, una sorta di diario scientifico del segretario Francesco Maria Zanotti (De Bononiensis scientiarum et Artium Instituto atque Accademiae. Commentarii) registrarono i risultati, compresi quelli dello stesso Zanotti, riportando altresì anche due studi di Beccari sui fosfori, di carattere più generale.

Marsigli dedicò all’argomento un’apposita dissertazione e l’Accademia delle Scienze di Parigi non fu da meno, come risulta dai Mémoires di Homberg e Du Fay. Fra i trattati di chimica, il celebre Cours de Chimie di N. Lémery (1645-1715) è forse quello che si occupa più diffusamente della Pietra di Bologna, anche dal punto di vista sperimentale e con il supporto di una bella tavola esplicativa. Quest’opera ebbe numerose riedizioni e traduzioni. L’ultima edizione, pubblicata in italiano nel 1719 da Gabriele Hertz, racconta la storia della Pietra, spiega come trovarla, ne cita le proprietà depilatorie, descrive minuziosamente il procedimento per farne fosforo e propone una teoria per spiegarne la luminosità.

Certo, Lémery non è indulgente con i predecessori; egli afferma che “Poterius, Montalbanus, Maginus, Licetus, Menzelus, e alcuni altri hanno scritto di questa pietra, e hanno date le maniere di calcinarla; ma le loro descrizioni non servono a nulla, perché, seguitandole, non s’ottiene alcun fine”.

Il secondo tomo del Dictionnaire de Chimie di Macquer, pubblicato a Parigi da Lacombe nel 1769, dedica alcune pagine a quello che è ritenuto il fosforo pietroso più celebre, la Pierre de Boulogne, interpretandone il comportamento con il ricorso al flogisto. Ciò rifletteva lo sforzo del chimico tedesco S. Maargraf, convinto sostenitore della teoria di Stahl. Superata questa teoria, la Pierre de Boulogne, continuò a trovar posto anche nei testi didattici francesi. Un esempio è il Cours de physique experimentale et de chimie; à l’usage des Écoles centrales, spécialment de l’École centrale de la Côte d’Or”, pubblicato a Digione e a Parigi all’ inizio del 1801, che riporta il procedimento per ottenere i piccoli gâteaux fosforescenti.

Gli studi sulla Pietra di Bologna, come documentato dalla letteratura chimica, si protrassero fino al 1940 circa, ma il procedimento e le condizioni che assicurano la piena riuscita della preparazione presentano tuttora qualche incognita. D’altronde, meraviglia e mistero accompagnano da sempre la strana luce della pietra. Anche Goethe ne rimase influenzato e, quando passò da Bologna, se ne procurò alcuni esemplari, citando poi la Pietra anche nel Werther. Nel clima di curiosità e di diletto che a livello popolare incoraggiava il lavoro degli studiosi sui “mirabilia minerali e naturali”, ben si comprendono le burle che la pietra ispirava e i piccoli commerci di questa autentica rarità. Si può allora concludere che, passeggiando sui calanchi di Paderno per scacciare la “naturale malinconia”, il calzolaio Vincenzo Casciarolo raggiunse l’intento anche a vantaggio di molti altri tra i quali, forse, potremmo includere anche noi.

Vincenzo Casciarolo, cui è stata dedicata una via nei pressi di Viale della Repubblica, trovò la pietra "alle radici" del Monte Paderno, a pochi chilometri dal centro di Bologna, nei pressi del rio Strione che da Paderno scende verso la località di Rastignano.

Noduli di barite raggiata o "pietra fosforica bolognese" (ormai molto rari) si trovano, oltre che a Paderno, a Monte San Michele, Monte San Pietro e nella Valle del Sillaro. Altre varietà di barite sono presenti a Monteveglio e Monte San Pietro. Come si è detto, alcuni esemplari si possono ammirare presso il Museo di Mineralogia (Piazza di P.ta S. Donato 1), che comprende una piccola sezione dedicata all'argomento. A Paderno si trovano tuttora con facilità, anche sui sentieri, lastrine di baritina.

Marco Taddia
Dipartimento di Chimica "Giacomo Ciamician"
Università di Bologna
www.itineraribologna.it

Mycena lucentipes

For more than 20 years, biology Professor Dennis Desjardin has been illuminating the world of fungi, some of nature's most important recyclers of organic matter. His latest findings are doing some illuminating of their own.

During recent treks into the old-growth forest habitat south of São Paulo, Brazil, Desjardin and his colleagues found 10 species of bioluminescent fungi, each capable of producing light through a chemical reaction. Four of these fungi are new to science.

Desjardin, with colleagues Cassius Stevani of the University of São Paulo, and Marina Capelari of Brazil's Institute of Botany, discovered such glowing decomposers as Mycena lucentipes, literally "glowing stem". "Only the stem glows, but so brightly that it illuminates the rest of the mushroom and is bright enough to read by," Desjardin explains. During the past three decades, he and his colleagues have increased the number of known bioluminescent fungi by 30 percent.

When did bioluminescence emerge in fungi and why? Desjardin's research team is seeking answers by extracting and sequencing DNA and developing a mushroom "family tree" that includes glowers along with their nonglowing relatives.

To date, Desjardin has personally published more than 150 new species and three new genera of mushrooms; he has hundreds more waiting for his attention in the Harry D. Thiers Herbarium in Hensill Hall. With more than 85,000 specimens of fleshy fungi, it is the largest and most important collection of these taxa west of the Mississippi and includes mycota from around the world, including the Hawaiian Islands, Indonesia, Southeast Asia, South America, Europe and Australia. Desjardin has added small dried specimens of the glowers to the herbarium, which can be toured by special appointment.

San Francisco State University
www.sfsu.edu


Krill nordico - Meganyctiphanes norvegica
Credo non sia luminescente
ma vale la pena ammirarne la bellezza.