A partire dai microrganismi, la tirosinasi è ampiamente distribuita in seno alla scala filogenetica: piante e animali, uomo incluso. I vari tipi di tirosinasi differiscono circa peso molecolare, sequenza aminoacidica e struttura proteica.
Nonostante ciò, sembra che
tutte le tirosinasi si siano
evolute da un antenato proteico comune contenente gli elementi
strutturali essenziali per lo svolgimento dell’attività catalitica. La
presenza di tirosinasi in organismi privi di melanina non ha una chiara
interpretazione. Lasciamo da parte le tirosinasi di batteri e piante, per
dedicarci direttamente alle tirosinasi degli animali, nei riguardi delle quali
la letteratura non è abbondante come per quelle vegetali, pur essendo
ampiamente distribuite in seno al regno animale.
L’elettroforesi su gel di poliacrilamide di preparazioni
provenienti da tre specie strettamente correlate, Octopus vulgaris, Sepia
officinalis e Loligo vulgaris,
ha rivelato una singola banda di L-tirosina con peso molecolare pari a circa
205kDa per Octopus, 125kDa per Sepia
e 135kDa per Loligo. Nonostante il peso molecolare diverso e la diversa mobilità
elettroforetica, le proprietà degli enzimi dei cefalopodi appare parallela a
quella di tirosinasi provenienti da altre fonti.
Una caratteristica che distingue le tirosinasi degli
insetti è la loro frequente presenza sotto forma di pro-tirosinasi inattiva
che diventa attiva attraverso una tappa proteolitica. Il proenzima di Bombyx
mori, il baco da seta, consiste di due subunità di 40 kDa con un solo
atomo di rame bivalente per ogni subunità, e diventa attiva grazie a una
proteasi che determina il rilascio di un piccolo peptide. Situazione simile si
verifica anche nella Rana pipiens e
nella Rana esculenta ridibunda, in
cui però il proenzima è sotto forma di dimero e l’enzima come tetramero.
La struttura proteica delle tirosinasi dei mammiferi non
può essere caratterizzata agevolmente attraverso le tecniche di
sequenziamento convenzionali a causa della loro scarsa concentrazione (meno
dello 0,01% del contenuto proteico dei melanociti), della presenza di un’estremità
N, o amino-terminale, bloccata, nonché a causa della natura pesantemente
glicosilata dell’enzima che determina una spiccata resistenza agli enzimi
proteolitici. A causa di queste difficoltà, le informazioni sulla struttura
delle tirosinasi dei mammiferi derivano prevalentemente da cloni di cDNA
melanocito-specifici che possono codificare per l’enzima. La sequenza
aminoacidica così dedotta dal clone di cDNA umano ha una struttura simile a
quella del topo, e consiste di 529 residui aminoacidici con peso molecolare di
circa 59 kDa.
Il
rame è il cofattore essenziale
per l’azione catalitica della tirosinasi. Nella maggior parte dei casi il
sito attivo dell’enzima contiene due atomi di rame accoppiati allo stato
cuprico bivalente, avvicinati quanto basta a permettere l’interazione e l’accoppiamento
antiferromagnetico del singolo elettrone presente su ogni atomo.
I ligandi di uno dei due ioni cuprici sono rappresentati
da 3 residui di istidina
altamente foto-ossidabili presenti nel sito attivo. Le molecole di istidina
fotolabili sono state identificate come His-188, His-193 e His-289 della
sequenza.
Al di là dell’inattivazione fotochimica, la tirosina soffre di un’inattivazione
graduale e irreversibile col procedere dell’ossidazione
del substrato. Questo processo è
accompagnato dalla distruzione selettiva di un residuo di istidina, His-306, e
questa distruzione si associa alla perdita di 1 g-atomo di rame per mole di
enzima a inattivazione completata. Gli altri residui di istidina vengono
distrutti durante la foto-ossidazione dell’apotirosinasi.
I
substrati tipici della tirosinasi sono i mono e gli o-difenoli
(catechols), anche se l’enzima mostra un’affinità maggiore per gli o-difenoli. Il precursore della melanina 5,6-diidrossindolo
è generalmente considerato come un substrato dotato di elevata affinità per
la tirosinasi. In condizioni sperimentali abituali il composto è altamente
suscettibile all’auto-ossidazione, specialmente in presenza di ioni
metallici, per cui diventa difficile stabilire i parametri della cinetica
enzimatica.
I
residui di tirosina appartenenti alle proteine possono venir ossidati
dalla tirosinasi. Una caratteristica distintiva della cinetica ossidativa
della tirosina e di altri monofenoli per opera della tirosinasi è un periodo di latenza,
spesso definito come tempo di induzione,
che precede l’avvio della reazione. Questo periodo è soggetto all’influenza
di numerosi fattori che includono: concentrazione del substrato e dell’enzima,
pH del mezzo, presenza di donatori di idrogeno, specialmente di L-dopa. Altri
composti catechol come dopamina, adrenalina e noradrenalina, possono
accorciare il tempo di latenza ma non possono eliminarlo anche se aggiunti in
concentrazione elevata.
Sta di fatto che la dopa
è il cofattore naturale dell’attivazione della tirosinasi in vivo,
ma non essendo un aminoacido abituale il problema si sposta nel chiedersi come
la tirosinasi venga attivata a produrre il suo stesso cofattore. Recenti
ricerche hanno dimostrato che quantità catalitiche di ione ferroso sono in
grado di attivare la tirosinasi in assenza di dopa e che l’effetto è
altamente specifico per lo ione ferro allo stato ridotto, senza che venga
soppresso da scavengers, o spazzini,
di radicali ossigeno attraverso la riduzione nel sito attivo degli ioni
cuprici allo stato ramoso. D’altro canto la tirosinasi e altri enzimi
contenenti rame sono in grado di catalizzare l’ossidazione del Fe bivalente
a Fe trivalente.
La velocità di idrossilazione della tirosina a dopa e
quindi a dopachinone è proporzionale alla concentrazione dell’enzima in
forma ridotta. In condizioni di riposo gran parte dell’enzima si trova nella
forma bicuprica ed è inattivo, a meno che non
sia presente un donatore di idrogeno. Questa funzione può essere svolta dalla
dopa o da altri catechols che si legano alla tirosina per dar luogo alla forma
ridotta attraverso un processo di trasferimento di due elettroni. Trascorso il
periodo di induzione, la rapidità di ossidazione della tirosina è identica a
quella della dopa, dal momento che la dopa è contemporaneamente un prodotto
dell’ossidazione della tirosina, è un substrato ed è un attivatore dell’enzima.
Pochi enzimi sono stati studiati come la tirosinasi allo
scopo di trovare il modo per inibirne l’azione catalitica, in quanto l’industria
alimentare ha la necessità di impedire lo scurimento di diversi tipi di
frutta e di vegetali soggetti ad immagazzinamento protratto. Tuttavia, lo
stimolo maggiore per questo tipo di ricerche è partito dalla necessità di
porre un limite alle svariate forme di disturbo della pigmentazione cutanea
dell’uomo, in quanto si tratta non solo di agire sulle antiestetiche macchie
marroni, sul cloasma e sul melasma, ma anche sul melanoma cutaneo. Composti
sulfidrilici come cisteina e glutatione non esercitano un effetto sulla
tirosinasi, in quanto si limitano far scomparire il dopachinone derivato dall’ossidazione
della tirosina.
Inibitori
veri della tirosinasi sono gli agenti chelanti del rame, capaci cioè di legarsi al rame presente nel sito
attivo dell’enzima. Possiamo citare la mimosina, analogo alla dopa e
presente in natura, e un antibiotico prodotto da un ceppo di Streptomyces. Altri esempi sono forniti dal tropolone, uno dei più
potenti inibitori della tirosinasi, l’acido benzidroxamico, la feniltiourea
(PTU), il dietilditiocarbamato (DDC).
Un’altra categoria di inibitori della tirosinasi
appartiene agli acidi carbossilici, in base alla constatazione che l’inibizione
aumenta col diminuire del pH del mezzo ambiente. Si verificherebbe un’interazione
acido-base tra l’istidina del ligando a livello del sito attivo contenente
rame.
Una delle caratteristiche distintive della tirosinasi,
scoperta contemporaneamente all’enzima, è la tendenza ad andare incontro a rapida inattivazione durante l’attività
catalitica stessa, specialmente in presenza di substrati catechol. Si ratta
di uno dei primi esempi di inattivazione suicida:
durante l’ossidazione aerobica dei catechols la velocità di consumo d’ossigeno
decresce rapidamente a partire dal momento d’inizio della reazione, e l’ossidazione
si arresta prima del completamento, a meno che non si ricorra a un largo
impiego di enzima. Le ultime indagini hanno messo in evidenza la perdita di uno dei nove residui di istidina,
precisamente il residuo His-306, con ogni probabilità a causa di un attacco
della molecola da parte di molecole altamente reattive originate dall’ossigeno
molecolare, quasi certamente da parte di radicali idrossilici OH+.
La cosiddetta attività dopa-ossidasica di Ageboom e Adam,
altro non è che l’attività tirosinasica caratterizzata da un intervallo di
induzione così protratto da far sì che l’enzima non sembri correlato con l’ossidazione
della tirosina. In presenza di quantità catalitiche di dopa, questo periodo
di induzione viene accorciato secondo un andamento logaritmico, e precisamente
in accordo con il logaritmo della concentrazione della dopa aggiunta alle
preparazioni sperimentali. Pertanto, la dopa può agire da catalizzatore durante il processo di ossidazione
della tirosina a dopa. Inoltre, si è visto che nei tessuti di mammifero
la tirosinasi purificata può catalizzare le prime due tappe di conversione
della tirosina a dopa e quindi da dopa a dopachinone.
La dimostrazione che nei vertebrati la tirosina è il
precursore della melanina è stata fornita da Brunet, Fitzpatrick e Kukita:
iniettando tirosina marcata nel sacco vitellino al 5° giorno di sviluppo del
pulcino, si è visto che la tirosina viene incorporata nelle piume dell’embrione
di Minorca nera, ma ciò non accade per le piume della Livorno bianca.
La melanina neoformata è sotto forma di granuli che si
presentano di color marrone in modo uniforme. La struttura dei granuli di
pigmento presenti nel citoplasma dei melanociti invece non è uniforme, in
quanto si trovano in vari stadi di sviluppo a seconda del momento in cui
vengono osservati. Essi iniziano con l’assumere una forma vacuolare vuota,
e l’etimologia di vacuolo significa appunto piccola cavità vuota.
Successivamente compare del materiale sotto forma di lamelle ripiegate che
rapidamente si ispessiscono per meglio definirsi grazie alla deposizione di
ulteriore materiale più denso.
L’indagine al microscopio elettronico ha dimostrato che la sintesi della tirosinasi avviene sui ribosomi,
da dove l’enzima viene trasferito, attraverso il reticolo endoplasmatico, ai
futuri granuli di pigmento dove viene immagazzinato. I granuli di pre-pigmento
così formati vengono gradualmente melanizzati fino a diventare,
eventualmente, uniformemente densi, assumendo l’aspetto di particelle prive
di struttura, i melanosomi, incapaci di un’ulteriore sintesi melanica e
pronti a essere trasferiti in altre cellule.