Dal punto di vista etimologico DNA ricombinante significa
ibridazione
tra
due filamenti di DNA, o tra un filamento di DNA e uno di mRNA, provenienti da
due diversi organismi. A sua volta ibridazione equivale ad appaiamento,
secondo le leggi della complementarietà, di un filamento di DNA con uno di
RNA o di due filamenti di DNA di origine diversa.
In senso lato DNA
ricombinante viene attualmente impiegato come sinonimo di ingegneria
genetica, di biologia molecolare e di manipolazione genica, per definire l’insieme
di tutte le metodologie e le tecniche laboratoristiche applicabili all’analisi
del DNA, in virtù del fatto che il fenomeno dell’ibridazione
rappresenta uno dei pilastri fondamentali su cui si fonda l’intera
ingegneria genetica.
La genetica è la scienza che si
occupa di tutti gli aspetti dei caratteri ereditari, mentre l’ingegneria
genetica è l’applicazione delle
conoscenze acquisite attraverso le ricerche genetiche, e ha come scopo la
soluzione di alcuni problemi: infecondità, malattie,
produzione di alimenti, eliminazione di rifiuti, miglioramento delle specie
animali e vegetali. Le tecniche impiegate in questa branca biologica alterano
i processi ereditari e riproduttivi degli organismi e, a seconda del problema
da risolvere, essa può ricorrere all’inseminazione artificiale, alla
clonazione, alla fecondazione in vitro, all’ibridazione interspecifica o
alla genetica molecolare. Le scoperte più recenti nel campo della genetica
molecolare hanno permesso la manipolazione diretta del materiale genetico
attraverso la tecnica del DNA ricombinante, nonostante esistano problemi irrisolti riguardo ai geni, soprattutto
circa i rapporti tra i siti espressi, gli esoni o exoni, e le porzioni molto più lunghe ma non direttamente espresse,
gli introni.
A onor del vero, sono migliaia
d’anni che l’ingegneria genetica viene attuata sia
in campo animale che vegetale: il grano, per esempio, è stato coltivato
secondo schemi selettivi per 7 millenni, e ciò a puro scopo alimentare;
bovini e suini furono addomesticati rispettivamente 8.000 e 9.000 anni fa,
diventando la fonte principale degli alimenti proteici grazie alla paziente
selezione operata dall’uomo. Non precisiamo la data presumibile dell’addomesticamento
del pollo, in quanto nuovi reperti archeologici potrebbero smentire qualsiasi
affermazione.
Fino a poco tempo fa l’applicazione di un certo numero
di scoperte al settore immunologico non ha avuto grande successo, in quanto
gli anticorpi necessari a proteggere un organismo appartengono a numerose
categorie, e debbono essere specifici per una determinata malattia, sia essa
causata da microrganismi che da cellule particolari.
Se talora dobbiamo rinunciare a dare un’interpretazione finalistica agli eventi biologici, non è questo il caso dell’immunità. Infatti l’organismo ha la fortuna di riconoscere qualsiasi sostanza estranea, vivente o inerte, che abbia valicato i suoi confini. Gli sproloqui logorroici di diplomatici manovrati a dovere non sortirebbero effetto alcuno contro la necessità di preservare l’integrità dell’ambiente. Subito, in men che non si dica, l’organismo accetta l’intruso oppure gli dichiara una guerra spietata. Nel 1975 una cellula tumorale è stata fusa con una cellula della milza produttrice di anticorpi rivolti contro una specifica sostanza estranea, quindi, contro uno specifico antigene.
La cellula_ibrido, detta ibridoma,
ha continuato a produrre un unico tipo di anticorpi, o anticorpi monoclonali, come faceva la cellula
parentale splenica, e ha continuato a crescere e a moltiplicarsi come la
cellula cancerosa anch’essa parentale. Gli anticorpi monoclonali vengono ora
prodotti su larga scala per combattere microrganismi specifici.
Sfortunatamente un anticorpo è una proteina relativamente
grande composta da circa 1.320 aminoacidi, che in alcuni soggetti può causare
una reazione allergica qualora venisse iniettata. Per ovviare a questo
spiacevole inconveniente, gli scienziati si sono messi all’opera per
produrre un anticorpo formato solo da quella parte della molecola che si lega
in modo specifico all’agente estraneo rappresentato dall’antigene. La
ridotte dimensioni di un simile anticorpo modificato fa scendere in modo
drastico l’incidenza di reazioni allergiche e facilita oltretutto il suo
veicolamento verso il bersaglio. In definitiva, l’obbiettivo che i
ricercatori si sono prefissi è la sintesi di peptidi con molecola breve,
composta da circa 15-20 aminoacidi, in grado di mimare l’unione
antigene-anticorpo dei vari anticorpi monoclonali. Questi
anticorpi a molecola superleggera possono venir prodotti in
elevata quantità e a costo contenuto, e sono in grado di combattere le
malattie senza esporre al rischio di allergie.
Una delle ultime e sospirate conquiste dell’ingegneria genetica è stata l’eritropoietina (EPO), ormone di origine renale, prodotto anche in sedi extrarenali, indispensabile per combattere alcune forme di anemia, specialmente nei pazienti emodializzati a causa di insufficienza renale cronica, i quali per lo più sono anche anemici [1] . L’EPO umana è un ormone glicoproteico del peso molecolare di 34.000 Da composto da 166 aminoacidi, il cui gene è localizzato sul braccio lungo del cromosoma 7, è stato clonato ed espresso per la prima volta nel 1984 in batteri. L’EPO è caratterizzata da un’abbondante glicosilazione che non è indispensabile alla sua attività in vitro ma solo in vivo.
Il peso molecolare della proteina ricombinante umana espressa in Escherichia coli, ovviamente non glicosilata e quindi inattiva, è
di soli 18 kDa. L’espressione del gene umano indotta in cellule di ovaio di
criceto cinese (CHO - chinese hamster
ovary cells) ha permesso di produrre una proteina quasi identica a quella
umana, con peso molecolare di 30,4 kDa. L’Epo stimola la proliferazione e la
differenziazione terminale della cellule progenitrici dei globuli rossi, e l’eritropoietina
ricombinante umana, cui è stata attribuita la sigla rHu-EPO,
è in grado di correggere l’anemia in quasi il 100% dei pazienti con anemia
associata a insufficienza renale in uremia terminale, cioè in fase
predialitica, nonché in corso di dialisi.
Concettualmente, i principi e le tecniche coinvolte nella
produzione di una proteina ricombinante sono relativamente semplici: si tratta
di isolare un gene da una cellula, sistemarlo in una cellula diversa, crescere
quest’ultima in un brodo di coltura adatto attraverso un processo simile
alla fermentazione, isolare e purificare la proteina così prodotta e liberata
nel brodo di fermentazione. Un
progetto d’ingegneria genetica comincia sempre dalla purificazione del gene che codifica per il prodotto
desiderato. Il processo di purificazione o clonaggio del gene rappresenta pertanto la fase iniziale e
fondamentale. Per ragioni di arricchimento del materiale di partenza, è
spesso consigliabile partire da mRNA piuttosto che da DNA. Infatti, in tessuti
particolari, la quantità di mRNA relativo a un determinato gene può essere
anche 1.000 volte superiore a quella del DNA genomico, cosa che ovviamente
facilita non poco l’isolamento della sequenza desiderata. Inoltre, nell’mRNA
la sequenza tradotta in proteina è completa e non interrotta, mentre nel DNA
l’alternarsi di sequenze codificanti (esoni) e non codificanti (introni)
rende più problematico l’isolamento dell’intera sequenza.
[1] Si tratta di un’anemia normocromica e normocitica, cioè, i globuli rossi non mancano di ferro e hanno dimensioni normali.