Dopo tanta cultura asservita all’esperanto d’oggi - il flessibilissimo inglese - adoperiamo il nostro linguaggio e vediamo cosa diceva Ghigi quando molti di noi erano ancora nel Mondo della Luna.
Il brano è tratto ancora una volta da Galline di Faraone e Tacchini.
«Innanzi tutto dobbiamo chiederci in quale epoca e presso quali popoli sia avvenuto l’addomesticamento della gallina di Faraone. La Faraona non figura sui monumenti dell’antico Egitto ove trovansi figurati polli, piccioni, oche, ecc., la qual cosa fa supporre che gli Egiziani non avessero ridotto in schiavitù quest’uccello. Una specie di Faraona fu invece addomesticata per tempo in Grecia; essa era nota ad Aristotele col nome di meleagride, e, secondo Henn, si trova menzionata anche nelle opere di Sofocle, le quali, com’è noto, datano dal V secolo avanti Cristo. Abbiamo veduto, parlando della Numida meleagris, la descrizione di questa specie data da Ateneo. Plinio, nella storia degli animali, si esprime in questi termini:
Auctores
sunt omnibus annis advolare Ilium ex Aethiopia aves et confligere ad
Memnonis tumulum, quas ob id Memnonidas vocant. Hoc idem quinto quoque
anno facere eas in Aethiopia circa regiam Memnonis, exploratum sibi
Cremutius tradit. |
Ci
sono testimonianze che tutti gli anni degli uccelli dall’Etiopia
volano ad Ilio e combattono presso il sepolcro di Mèmnone e per
questo sono chiamati Memnonidi. Che ogni quattro anni facciano la
stessa cosa in Etiopia presso la reggia di Mèmnone, Cremuzio dice di
averlo visto personalmente. |
Simili
modo pugnant Meleagrides in Boeotia. Africae hoc est gallinarum genus,
gibberum, variis sparsum plumis. Quae novissimae sunt peregrinarum
avium in mensas receptae propter ingratum virus; verum Meleagri
tumulus nobiles eas fecit. |
Le
Meleagridi combattono penosamente
in Beozia. É una specie di gallina d’Africa, gobba e di manto
variopinto. Di tutti gli uccelli stranieri, sono gli ultimi ad essere
stati ammessi sulle tavole, a cagione del loro sgradevole sapore; ma
la tomba di Meleagro le ha rese celebri. |
La traduzione del secondo paragrafo di Plinio, che è il solo ad essere riportato da Ghigi, sembra penosa come lo è quella di Lind del trattato di Aldrovandi. Penso che Ghigi abbia voluto affidare la traduzione a qualcuno che andava per la maggiore, ma è logico che il dover tradurre simili modo senza sapere che cosa prima accadeva e che diavolo accadrà dopo, ricalca quanto è successo in liceo a proposito di una mia versione dal latino, che esordiva così: Primo vere... etc, che io tradussi con Dapprima invero, mentre l’azione stava svolgendosi all’inizio della primavera. Le versioni appioppate sui banchi di scuola sono enucleate dal contesto, e dobbiamo concederlo. Altrettanto benevoli non possiamo essere con chi ha tradotto per Ghigi il paragrafo 74 del libro X della Naturalis historia di Plinio.
Fig. VIII. 65.1 - De avibus quibusdam, quas in Belgio Kemperkens, idest Pugnaces vocant (Aldrovandi, III,413-420): secondo quanto riferisce D’Arcy Thompson la Pavoncella combattente - Philomachus o Machetes pugnax, ordine dei Caradriiformi - potrebbe essere l’uccello che in base alla leggenda combatteva presso la tomba di Memnone. Durante il periodo degli amori quest’uccello di ripa presenta un’estrema combattività: i maschi lottano in modo molto simile ai galli afferrandosi per il becco e colpendosi con le ali, mentre il gran collare di penne funziona da scudo. Filippo Capponi, in un’analisi dettagliata basata sulle fonti antiche e sui dati ornitologici, conclude che il Memnonide della leggenda dovrebbe essere identificato, anziché in questa Pavoncella, in Milvus migrans migrans, oppure in Pterocles orientalis.
Fig. VIII. 65.2 - Philomachus o Machetes pugnax, Pavoncella combattente.
Fig. VIII. 65.3 - Milvus migrans migrans, Nibbio bruno.
Fig. VIII. 65.4 – Pterocles orientalis, Ganga.
Può essere tuttavia interessante cercare di entrare nel pensiero di chi ha tradotto simili modo con penosamente. Non sapendo che pesci prendere, conscio che il Gallus è un vero combattente, avrà pensato che le Faraone combattono male, come combattevano male i Memnonidi [1] . Mah?! Sta di fatto che è sempre più difficile astenersi dalle critiche.
Per cui, simili modo va tradotto con in modo simile, in quanto anche in Beozia si svolgevano lotte fra uccelli. Ma dove? Ci sarebbe da pensare che questi uccelli, essendo Meleagridi, combattessero sulla tomba di Meleagro, figlio di Eneo re di Calidone, antica città della Grecia nell'Etolia, di cui esistono i resti presso l'attuale Missolungi, sulle prime pendici del monte Arákynthos, quasi di fronte a Patrasso.
Quindi Meleagro abitava in Etolia e non in Beozia, anche se possiamo supporre, in base al racconto di Plinio, che fosse stato sepolto in Beozia, non lontano dalla sua gente, a due passi da Atene. Ma dal IX canto dell’Iliade sappiamo solo che Meleagro si armò - “chiuse le membra tutte nell’armi sue lucide”- per salvare gli Etoli, il suo popolo, dai Curati, i quali abitavano nella parte meridionale dell’Etolia. Né le altre leggende parlano di dove sia stato sepolto, ammesso che sia stato onorato di un monumento funebre, come invece afferma Ovidio nel libro VIII delle Metamorfosi.
E proprio da Ovidio sappiamo che le sorelle di Meleagro furono da Diana trasformate in uccelli – Ovidio non dice in faraone, dice solo in uccelli - mentre piangevano aggrappate alla tomba del fratello, che quindi dovrebbe essere stato sepolto a Calidone dopo che la madre Altea l’aveva ucciso con un sortilegio.
Dovunque fosse stato sepolto Meleagro, sta di fatto che ad Atene e in Beozia le faraone erano addestrate per combattimenti come se si trattasse di galli combattenti. È a questo che si riferisce Plinio, il quale, nella sua arcinota stringatezza, lascerebbe supporre che il tumulo di Meleagro, tumulo che ha reso celebri le faraone, si trovasse in Beozia. No. In Beozia le faraone facevano divertire i Greci. Altrove, la tomba di Meleagro aveva reso famosi questi uccelli.
Secondo
D’Arcy Thompson le faraone erano giunte ad Atene e in Beozia via Egitto
grazie a carovane di Darfur provenienti dall'antico regno Darfur sito
nell'area centrale sub-sahariana, a metà strada tra il Nilo e il Ciad,
importante centro di migrazioni e di mescolanze etniche.
Ghigi così prosegue:
«È infatti a Meleagro,
figlio di Eneo re di Caledonia [sic!], che le Meleagridi debbono il loro nome.
Secondo la mitologia greca, questo principe essendo perito per odio della
madre, procurò alle sorelle un dolore così acuto che lo seguirono nella
tomba; ma Diana le trasformò in galline di Faraone e volle che il loro manto
portasse l’impronta delle lacrime versate. Il nome di Meleagris, conservato da Aristotele a da Plinio, si riferiva a
questo mito.
«Dalle cose
esposte risulta:
1 - che le galline
di Faraone erano conosciute dai Greci fino dai tempi antichi;
2 - che vi erano
tenute in ischiavitù, specialmente in vicinanza dei templi, piuttosto come
uccelli sacri o destinati ai sacrifici che non come animali da cortile;
3 - che esse
avevano le caruncole rosse e che per conseguenza non appartenevano al tipo
della Numida ptilorhyncha d’Abissinia
che le ha azzurre, ma al tipo della Numida
meleagris che le ha rosse. Probabilmente la Grecia traeva questi uccelli
da Cirene o da Cartagine, città che avevano relazioni commerciali estesissime
e che traevano prodotti dall’Africa tropicale, sia per via di terra, sia per
mezzo di navi che oltrepassando le colonne d’Ercole si recavano fino alle
Isole Fortunate (Canarie) ed al Senegal.
[2]
«In Grecia
peraltro le Faraone non vennero mai in voga come oggi in Italia. Ai tempi di
Varrone erano ancora rare e considerate come cibo prelibato, riservato alla
tavola dei ricchi: “Non Afra avis
descendet in ventrem meum”, scrisse Orazio.
A dire il vero Orazio scrisse descendat che è congiuntivo presente, attestato sia da Aldrovandi che lo riporta da Belon, sia in Antologia Oraziana curata da Enrica Malcovati, mio testo di liceo. Si tratta del 53° verso degli Epodi (I, 2), composizione che esordisce con Beatus ille, fresco elogio della vita rustica. Orazio, infatti, non si dà pena per cibi esotici come la Faraona, il Francolino - Attagen Ionicus -, le ostriche del lago Lucrino, ma preferisce prodotti della terra che ciascuno è riuscito a crescere nel proprio podere. Quindi il non Afra avis descendat esprime un desiderio e non un’affermazione come nel caso di descendet, che è indicativo futuro.
«Columella descrisse, come ho già riferito, due specie di Faraone: una a caruncole azzurre che chiama Meleagris, l’altra a caruncole rosse che chiama gallina africana o numidica. É dunque evidente che i Romani conobbero due specie e cioè la ptilorhyncha e la meleagride: rimane dubbio se quest’ultima, proveniente, come ho già detto, dai territori di Cartagine (Africa dei Romani) e della Numidia, fosse quivi importata dalla costa nord-ovest o se vi si trovasse selvatica, nel qual caso la primitiva distribuzione della meleagride sarebbe stata estesissima procedendo dalla Guinea, alla Senegambia, al Marocco fino alla Numidia.
Fig. VIII. 66 - Toponomastica ai tempi di Giulio Cesare
«Il passo,
già citato, di Scilace Cariandeo
[3]
rende più probabilmente giusta
la prima ipotesi della presenza di meleagridi domestiche importate da oltre le
colonne d’Ercole, presso Fenici e Cartaginesi.
«In ogni modo, sia
che le Faraone allevate in Italia abbiano appartenuto ad una sola o a due
specie distinte, esse non hanno sopravvissuto alla caduta dell’impero
romano. Peraltro sono indubbiamente Faraone due uccelli rappresentati in un
bassorilievo di una pala d’altare a Sant’Agata di Ravenna, chiesa
costruita nel VI secolo. Egualmente disparvero quelle allevate in Grecia e per
quasi tutto il Medio Evo non si hanno documenti storici che provino la
presenza di galline di Faraone in Europa.
«Esse riapparvero
come conseguenza delle spedizioni lontane dei Portoghesi e degli Spagnuoli,
condotte da Enrico il Navigatore, Bartolomeo Diaz, Vasco de Gama, ecc.
Tuttavia non bisogna credere, come suppone l’Oustalet, che ad esemplari di meleagride
importati dai Portoghesi si riferisse l’Aldrovandi nel descrivere la sua Gallina africana.
«Fra i dipinti
dell’Aldrovandi, conservati nel ricostruito Museo Aldrovandiano di Bologna,
si trovano due tavole rappresentanti l’una il maschio, e l’altra la
femmina della Gallina africana, le
quali corrispondono perfettamente alla Numida
ptilorhyncha; anzi non v’è dettaglio che sia stato trascurato.
«Non ignorò l’Aldrovandi
che nelle coste occidentali d’Europa i Portoghesi importavano la gallina d’Africa,
chiamandola pollo di Guinea, ma egli certamente non vide alcuno di questi
esemplari, diversamente avrebbe notato la differenza di colori nelle caruncole
delle due specie, né avrebbe cercato di dimostrare come, geograficamente, la
Guinea e la Numidia potevano in fondo considerarsi come la medesima cosa, in
rapporto alla gallina di Faraone, né avrebbe sciupato tanto inchiostro per
dimostrare che la meleagride degli antichi, a caruncole rosse, era nientemeno
il tacchino! L’Aldrovandi ha con ciò mostrato di non sapere che il tacchino
è di origine americana
[4]
e questo suo errore, comune al
Gesner e ad altri scrittori del Medio Evo naturalistico, i quali hanno dato al
tacchino il nome di Meleagris,
significa che alcuni di essi, ma non il Gesner, non conobbero la meleagride
africana dalle caruncole rosse, ma solo la ptilorinca.
«È certo intanto
che nel 1600 l’attuale gallina di Faraone domestica non era ancora stata
introdotta in Italia, e che la ptilorinca non era sconosciuta.
«Giacché, se come
ho detto sopra, le
Faraone non sono ricordate nei monumenti dell’antichissimo Egitto,
sarebbe azzardato escludere che gli Egiziani non abbiano conosciuta ed
importata la ptilorinca all’epoca della loro conquista dell’Etiopia,
avvenuta circa 1700 anni avanti Cristo durante la XVIII dinastia, o, nella
peggiore delle ipotesi, non l’abbiano introdotta nell’Egitto medesimo i
dominatori etiopi otto o nove secoli avanti l’era cristiana.
«Tornando alla
Faraona introdotta in Europa dai Portoghesi, giova notare che questi la
denominarono Pintado (uccello
dipinto) e gli Spagnuoli Polla pintada,
nomi che i Francesi hanno tradotto in Pintade;
gli Inglesi la chiamano Guinea-fowl
o pollo di Guinea. Tutta questa terminologia indica un’origine occidentale,
applicabile alla meleagride e non alla ptilorinca. Soltanto il nome italiano
di gallina di Faraone presupporrebbe un’origine egiziana, applicabile più
alla ptilorinca che alla meleagride.
«Se i dati storici
che ho esposto lasciassero adito a qualche dubbio in proposito, la questione
è completamente risoluta dai dati morfologici. I caratteri di forma della
Faraona domestica sono, come il lettore può riconoscere dalla parte
descrittiva, quelli della meleagride e non della ptilorinca; le due specie
sono suscettibili di incrociarsi tra di loro, ma i prodotti offrono caratteri
intermedi, diversi da quelli della meleagride, in maniera da escludere nella
nostra forma domestica qualsiasi ibridazione. Inoltre, dalle mie ripetute
esperienze personali risulta, come ho già esposto, che la
ptilorhyncha è forma erratica, di addomesticazione difficile, al
contrario della meleagris, che è
sedentaria.»
In sintesi:
in base alle caruncole rosse,
sia Belon che Aldrovandi
hanno confuso una Faraona con un Tacchino.
[1] Memnone era il mitico re d’Etiopia che si recò a Troia in aiuto a Priamo, per essere poi ucciso da Achille; la migrazione degli uccelli riproduce il viaggio dell’eroe dalle cui ceneri, secondo la leggenda narrata anche da Ovidio, gli animali sarebbero nati. L’identificazione dei Memnonidi è incerta. Ilio è l’altro nome di Troia che secondo gli antichi è derivato dal fondatore: Ilo.
[2] Non bisogna dimenticare che verosimilmente, chissà quando, si verificava anche una migrazione forzata di specie da una costa all’altra dell’Africa, perché le galline del Faraone importate in Senegal dall’oriente, come dice Aldrovandi, erano quindi delle ptilorinche.
[3] In altro punto del libro Ghigi cita un brano del Periplus (12) di Scilace Cariandeo, in base al quale è possibile desumere come senza dubbio Romani e Greci intendessero designare col nome di Meleagridi uccelli occidentali che abitavano il Marocco, dove proprio anche oggi (1936) vivono Faraone (Numida sabyi) allo stato selvaggio. Scilace spiega dove si trovava il lago di Cefisiada: al di là delle colonne d’Ercole.
[4] Quest’affermazione di Ghigi non è vera, come vedremo, in quanto Aldrovandi - Libro XIII pagina 41, riga 5 - riportando le parole di Pierre Gilles, diventa per forza conscio dell’origine americana del tacchino. Pierre Gilles infatti afferma: Is quem ex novo orbe delatum vidi.