[...] Il testo più lungo è però senz’altro il Liber Kyranidis,
che occupa più dei tre quarti dell’attuale manoscritto.
Si tratta di un’opera di ampio respiro, la cui tradizione è
piuttosto complessa; in particolare si è a lungo discusso della
paternità della sua traduzione latina. Il libro, citato già da
Galeno
e da Olimpiodoro e assegnato in manoscritti greci a Ermete Trismegisto,
consiste, secondo la ricostruzione proposta dal traduttore latino del
secolo XII, nell’unione di due testi distinti:
- il primo attribuito al re di Persia Kiranides (Kiramides, Kyranides)
o Kiranus,
- il secondo a un Arpocration di Alessandria, che illustra alla
propria figlia le nozioni da lui apprese durante un viaggio in terre
orientali e narra le vicende che lo hanno portato a tali
conoscenze.
Spesso, nei codici che lo contengono, il Liber si trova insieme
ad opere dello pseudo Alberto Magno o addirittura viene attribuito a
quest’ultimo.
Suddiviso in quattro libri nella redazione latina, forse ne contava
altri due almeno a giudicare dal numero di libri che pare componessero
a loro volta la redazione greca.
Nel primo libro sono raccolti sotto ciascuna lettera dell’alfabeto
un uccello, un pesce, una pianta e una pietra (il nome dei quali
inizia con quella lettera), e di ciascuno di essi l’Autore descrive
le virtù terapeutiche e la maniera di trarne talismani.
Nei tre libri successivi un procedimento analogo viene applicato,
ancora in rigido ordine alfabetico (naturalmente secondo il rispettivo
nome greco), ai soli animali, procedendo in quest’ordine: prima i
quadrupedi, poi gli uccelli e infine i pesci.
L’opera è forse un prodotto d’età imperiale dove sono confluite,
mescolate in un sincretismo che attinge alla letteratura greca e a
quella orientale di natura ermetica, conoscenze scientifiche e di
occultismo. Probabilmente conosciuto in Oriente anche durante il
periodo bizantino, di certo esso ricompare a Costantinopoli nella
seconda metà del secolo XII, quando viene tradotto in greco per
ordine dell’imperatore Manuele I Comneno.
La versione latina, condotta e portata a termine da un anonimo
infirmus clericus
– di volta in volta identificato con Gherardo da Cremona (il quale
però non pare abbia lavorato a Costantinopoli), con Raimondo Lullo
(non ancora nato alla data in cui essa fu effettuata) o con un Filippo
da Tripoli altrimenti ignoto– va probabilmente assegnata invece a un
Pascale Romano. È costui un traduttore latino alla corte imperiale di
Bisanzio, interessato al mondo dei sogni e del meraviglioso, autore di
un Liber thesauri occulti composto nel 1165 anch’esso nella
capitale bizantina, il quale poteva attingere, oltre che al proprio
patrimonio di fonti latine, a testi greci e orientali conservati nella
biblioteca imperiale. Quest’ipotesi, basata su una vecchia
ricostruzione di Charles Homer Haskins, riaffermata, nonostante la non
convinta confutazione del Delatte, da una breve nota di Ernest
Wickersheimer e da uno studio più ampio di Simone Collin-Roset, mi
pare ancora oggi la più convincente, tanto più che uno dei codici
del Liber, il Palat. lat. 1279, reca all’inizio un
monogramma del nome «p asgalis
».
A differenza di quanto accaduto per le opere che precedono, nel caso
del Liber mi è parso opportuno approfondire il rapporto del
nostro manoscritto con il resto della tradizione finora nota, poiché,
da una parte, credo che il codice palermitano contribuisca ad
evidenziare alcuni problemi legati a quella tradizione e alle scelte
(a mio giudizio talvolta discutibili) effettuate dall’editore;
dall’altra, proprio dal confronto con gli altri testimoni emergono
dati significativi per la ricostruzione della storia del manoscritto
stesso.
Già l’Haskins menzionava nel 1927 cinque dei ventisette manoscritti
che oggi si conoscono del testo latino (tralascio naturalmente del
tutto la tradizione del testo greco) e altri cinque ne aggiunse in
seguito il Delatte, il quale a sua volta ne ricorda un undicesimo,
conservato a Leipzig fino ai primi decenni del secolo XVII, quando fu
utilizzato da Ryakinus per la sua edizione del 1638, ed è oggi
perduto. Altri ancora, aggiunti nuovamente da Haskins, Singer e
Wickerscheimer, portarono alla lista di ventitrè codici della
Collin-Roset, aggiornata oggi a ventisette.
Seguendo l’ordine e mantenendo le sigle del Delatte (di cui riassumo
brevemente alcune osservazioni, limitandomi ai codici utilizzati per
l’edizione), abbiamo dunque i seguenti manoscritti:
1. A = London, British Library (già British Museum), Arundel,
342, cc. 1r-46r, del secolo XIV. Il copista principale
esegue correzioni, apporta varianti e pone nei margini titoli e
indicazioni pertinenti il testo; una seconda mano scrive le cc. 45r-
46r, ma rivede anche tutto il testo precedente, integra alcune
lacune e interviene a sua volta con correzioni e varianti; altre due
mani aggiungono ulteriori titoli e note marginali.
2. M = Montpellier, Bibliothèque de la
Faculté de Médecine, 277, cc. 41v-60r, del secolo XV. Il
copista principale integra nel margine alcune sue lacune; una seconda
mano (M 2) corregge l’intero testo intervenendo su rasure e in interlinea;
una terza (M 3),
oltre ad apportare qualche ulteriore correzione, aggiunge nei margini notabilia
e ricette contro alcune malattie in particolare.
3. O = Oxford, Bodleian Library, Ashmole 1471, cc. 143r-167v,
della fine del secolo XIV per Delatte, più genericamente del secolo
XIV per Haskins. I numerosi interventi del copista principale – che
aggiunge titoli nei margini, parole omesse nel testo, varianti e note
marginali – testimoniano un’attenta collazione con un altro
manoscritto. Il codice reca inoltre le tracce di molti lettori e
correttori, tra i quali uno (O 2) che spesso interviene su rasura, soprattutto nei primi fogli, ma che
non oltrepassa comunque la metà del manoscritto.
4. P = Biblioteca Apostolica Vaticana, Palatino latino 1279,
cc. 121r-152v, l’unico datato (5 marzo 1462) e
sottoscritto da un «Theobaldus Beckel de Argentina». Il copista
principale corregge in qualche punto i suoi stessi errori, ma un
lavoro completo di revisione è effettuato da P 2
che introduce varianti e ricette supplementari. Ad altra serie di
interventi probabilmente di più di una mano (P 3) vanno attribuite correzioni ortografiche e la trascrizione per
alcuni termini dell’equivalente greco.
5. R = Biblioteca Apostolica Vaticana, Reginense latino
773, cc. 21r-40r, del 1300 circa per Haskins, in
generale della fine del secolo XIII per Delatte. Il copista principale
non è attento all’ortografia, commette molti errori di copia,
omette alcune parti e del quarto libro riporta solo qualche estratto.
Almeno altre tre mani (R 2, R 3
e R 4)
intervengono con correzioni ed aggiunte; R 3
doveva conoscere il greco (o disponeva di una versione greca del Liber),
perché spesso aggiunge nel margine il nome di pietre, animali e
piante in questa lingua.
6. G = Gand, Bibliothèque de la Ville et
de l’Université, 416, cc. 184r-212r, del secolo XV. L’ordine
di libri e capitoli è interamente sconvolto. Il copista principale ha
abbozzato, alle cc. 190r-191v, un indice alfabetico per
i nomi di animali e piante, ma non lo ha poi completato con il
riferimento alle relative carte, ha eseguito inoltre qualche
intervento correttivo, poi completato da un lettore successivo. È il
testimone peggiore, che spesso rielabora il testo in maniera del tutto
arbitraria.
Su questi primi sei manoscritti il Delatte condusse la sua edizione (e
pertanto con essi è possibile condurre una collazione del manoscritto
palermitano), mentre eseguì soltanto alcuni confronti a sondaggio
sugli altri quattro da lui conosciuti, poiché nell’insieme essi non
contribuivano qualitativamente, a suo giudizio, a una più esatta restitutio
textus. Come si vede dal breve elenco, il Delatte ha osservato
alcune peculiarità, riconosciuto le diverse mani e valutato
occasionalmente l’autorità dei singoli codici, nonché avanzato in
qualche caso ipotesi circa la parentela tra un testimone e l’altro.
Egli non accenna affatto, però, al benché minimo tentativo di
tracciare uno stemma codicum e neppure giustifica mai (né
nell’introduzione né nell’apparato all’edizione) le proprie
scelte, preferenze ed esclusioni. Non è possibile pertanto, allo
stato attuale degli studi, inserire il codice palermitano a un qualche
livello della tradizione né tanto meno assegnarlo a un’eventuale
ramo piuttosto che a un altro. Si può soltanto tentare di
avvicinarlo, dove più dove meno, a questo o a quel testimone,
lasciando intravedere l’eventualità di una tradizione forse comune
ed evidenziarne quelle peculiarità che lo rendono per certi versi
particolarmente interessante.
Dalla collazione che ho effettuato sull’intero manoscritto, e di cui
fornisco qui di seguito soltanto un’esemplificazione significativa,
emerge innanzi tutto che, per quanto riguarda il I dei quattro libri,
a parte un altissimo numero di piccole varianti ortografiche e di
stile (da considerare perciò senz’altro adiafore), il nostro codice
(per il quale uso la sigla Pa per non confonderlo con il n. 4
della lista del Delatte) concorda in massima parte con M e con P,
spesso con R e in un certo numero di casi anche con O ed A, raramente
con G. Nei libri successivi, invece, all’incirca da c. 40r in
poi, il copista di Pa sembra copiare da un antigrafo che segue
probabilmente una traduzione diversa e di cui inoltre egli riporta,
all’interno del testo, titoli e forse anche intere ricette che in
quello erano evidentemente nei margini. [...]
(in
www.unipa.it/dicem/html/pubblicazioni/pan2001/pan11-2001.pdf)
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