La ghiandola deputata alla sintesi dell’inchiostro, come dimostrato da Giroud (1882), consiste di cellule cilindriche con nucleo in posizione basale, e di zona secretoria apicale fornita di granuli di melanina densamente impacchettati nei vacuoli.
Solo
nel 1960, ad opera di Szabo, furono intrapresi studi biologici di questa
ghiandola, perfetto modello di sintesi melanica, in quanto quasi tutte le
cellule sono attivamente impegnate nel processo di sintesi, mentre solo il 10%
o meno delle cellule di un melanoma e meno dell’1% delle cellule della cute
possono produrre melanina.
Le osservazioni ultrastrutturali hanno potuto confermare
che gli stadi di sviluppo delle cellule melaniche nella zona apicale della
ghiandola sono del tutto simili a quelli dei melanofori dei vertebrati, e che
più queste cellule diventano pigmentate, più sono prossime alla morte. Per
cui la melanogenesi potrebbe rappresentare un evento negativo nel curriculum
vitae di queste cellule.
Dopo maturazione e susseguente degenerazione, tutto il contenuto del melanoforo, inclusi i granuli di pigmento e gli altri componenti cellulari, viene trasferito al sacco dell’inchiostro che funziona da serbatoio. La quantità relativamente grande di pigmento, 1 g o più, normalmente presente nel sacco dei cefalopodi, come in Sepia officinalis, probabilmente è il risultato di un lungo periodo di immagazzinamento, dimostrato da esperimenti con materiale marcato. Ciò implica che i cefalopodi usano solo una piccola quota di inchiostro a fini difensivi e che esiste un meccanismo atto a permettere una rapida sintesi.
Il vero significato dell’inchiostro, arbitrariamente
attribuito a ruolo di nube atta a nascondere l’animale dal predatore,
consisterebbe in una trappola chimica che permetterebbe di
dilazionare o di impedire l’aggressione. Il dopacromo, o un altro prodotto
intermedio della biosintesi melanica, potrebbe dare ragione delle proprietà
chemosensoriali dell’inchiostro.
Una spiegazione alternativa deriva dall’osservazione che
l’inchiostro privo di melanina di Octopus
vulgaris contiene tirosinasi in abbondanza e in forma relativamente pura.
In 1 ml di questo inchiostro, quando raccolto di recente, è presente una
quantità di enzima che supera largamente quella presente in 1 mg di
tirosinasi commerciale derivata dai funghi. Quantità simili sono presenti
anche nell’inchiostro di altri cefalopodi, quali Sepia
officinalis e Loligo vulgaris.
Da quanto detto risulta verosimile che il componente
attivo dell’inchiostro non è la melanina, bensì la tirosinasi, che
effettivamente può catalizzare
in situ l’ossidazione di fenoli in chinoni tossici, in grado di paralizzare
l’olfatto del predatore. Il colore nero dell’inchiostro potrebbe servire
solamente ad attirare l’attenzione in un punto, dove la concentrazione di
tirosinasi è elevata.