Vol. 1° -  VIII.2.4.o.

Gli Uccelli nei sacrifici degli Ebrei

Gli uccelli dell'aria erano tra gli animali preferiti per i sacrifici. Noè sacrificò ogni uccello puro per trovare favore agli occhi di Dio (Genesi 8,20) e Abramo, prima di diventare il patriarca eletto da Dio, sacrificò una tortora e un piccione come parte del sacrificio che doveva suggellare il suo patto con Dio (Genesi 15,9). Se a Noè fu concesso di immolare uccelli selvatici, le regole del sacrificio richiedevano invece che gli animali fossero commestibili e addomesticati (Peters, 1913).

Pare che un tempo il pollo potesse arricchire le mense d’Israele, ma solo se prima era stato offerto in sacrificio in quanto Dio è padrone di tutto. Però nella Bibbia non sta scritto della possibilità di offrire a Dio il pollo, mentre si legge che i meno abbienti potevano sostituire pecore e capre con tortore o piccioni come offerta espiatoria (Levitico 14,22; 30,5.7) e di purificazione (Levitico 12,6.8; 15,14.29 e Numeri 6,10). Troppo poveri per potersi permettere un agnello, alla nascita di Gesù, Maria e Giuseppe offrono in sacrificio al tempio di Gerusalemme una coppia di tortore o di giovani colombi (Luca 2, 22.24) come prescritto da Dio.

Giustamente Peters si chiede perché nell’Antico Testamento non venga menzionato il pollo tra gli animali sacrificabili. La domanda avrebbe una risposta ovvia: perché il pollo fu noto in Palestina abbastanza tardi, dopo che le regole del sacrificio erano già state fissate. Peters, come Aldrovandi, dedica ampio spazio alla diatriba sull’interpretazione di vocaboli presenti nell’Antico Testamento che secondo alcuni starebbero ad indicare il pollo. Mentre Aldrovandi si limita a riferire, Peters va più a fondo concludendo che nessuno dei vocaboli indiziati - secheui, gaber e zarzìr - starebbe a denotare un gallinaceo, e neppure i barburim che secondo lui sarebbero oche.

Ma l’Antico Testamento non tace solamente sul pollo, anche anatre ed oche vi sono escluse, poiché, ad eccezione dei discussi volatili ingrassati per Salomone, i suddetti palmipedi non potevano essere di casa in un ambiente che per nulla si prestava al loro allevamento, contrariamente a quanto offriva l’Egitto. Oche ed anatre erano un lusso accessibile solo a chi, come Salomone, aveva i forzieri traboccanti d’oro.

Il Talmud - che, ricordiamolo, raccogliendo i commenti rabbinici all’Antico Testamento dal III secolo aC al V secolo dC, rappresenta una fonte d’informazione di primaria importanza - menziona il gallo e riferisce che intorno al 70 dC era usanza diffusa in Palestina celebrare le nozze alla presenza di un gallo e di una gallina, evidentemente come emblemi di fertilità. Inoltre, sempre nel Talmud, il gallo aveva anche finalità apotropaiche, era in grado, cioè, di allontanare malanni e sventure. Sarebbe di origine persiana l’usanza palestinese di pregare Dio quando si sentiva cantare il gallo, pronunciando parole di benedizione all’Altissimo che aveva dato al gallo la facoltà di discernere il giorno dalla notte.

Non mancarono in Palestina gli oppositori all’allevamento del pollo, perlomeno finché il tempio di Gerusalemme non fu raso definitivamente al suolo dall’imperatore Tito nel 70 dC.

Con tutto il loro ruspare, galli e galline continuavano a disseminare qua e là oggetti che il Levitico riteneva impuri. Ai polli bianchi non mancava una certa dose di fortuna a controbilanciare il fatto di essere facile preda dei rapaci: essi non potevano essere venduti perché li usavano gli idolatri nei loro sacrifici.

L’offerta a Dio doveva avere un certo valore e perciò veniva scelto un maschio senza difetti fisici. Tra le varie forme di sacrificio previste ne citiamo tre. L’olocausto, che comportava l’incenerimento di tutto quanto l’animale, il sacrificio di riparazione e il sacrificio di comunione. Il fedele portava la sua offerta fino al patio dinanzi all’altare, poneva la mano sopra alla vittima a significare che essa gli apparteneva e poi la immolava.

Se il sacrificio era pubblico il compito spettava al sacerdote che cospargeva l’altare col sangue raccolto in una bacinella, procedendo poi alla distruzione col fuoco di tutta la vittima se si trattava di olocausto, o di alcune parti specifiche contenenti determinati grassi negli altri casi. Se il sacrificio era di riparazione, ciò che rimaneva veniva consumato dai sacerdoti oppure dai sacerdoti e dalle loro famiglie. In caso di sacrificio di comunione al banchetto partecipava anche l’offerente coi suoi famigliari.

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